Il gatto si morde la coda e
non sa che la coda è sua
Sono straniera. Non è qui che sono nata, non è lì che sono cresciuta, altrove ho imparato la mia voce. E perché troppe volte non mi riconosco in quello che sento dire seppure ne intendo la lingua e i giochi di parole. Sono omosessuale. La Bellezza è oltre lo sterile giochino della X e delle Y. Sono reclusa. Mi hanno costruito una prigione con idee non mie, mi legano i polsi con catene di pregiudizi laddove io non sapevo neppure di dover scegliere. Hanno deciso per me un nome, immaginato un ruolo, un futuro, cosa dovrei essere. Nessuno immagina si abbia altri progetti che non quelli già pianificati. Sono senza terra. La mia casa non esiste, vivo d’ospitalità d’altri. Mi hanno detto che la terra è proprietà, appartiene a qualcuno e mai a tutti, meno che meno a se stessa, che il bisogno non è metro di giudizio e lo sono invece parole come censo, raggiro, autorità. Quest’ultima solo se costituita. Che sarebbe anche bello si costituisse. Pagando finalmente per i suoi peccati. Invece è sì costituita ma non si costituisce. Deve essere stato un qualche mito, forse è nata dalla testa di una divinità con la ventiquattr’ore e gli occhi chiusi. Sono nata nuda eppure mi insegnano che per esistere devo portare vestiti eleganti e tagliare i capelli come nelle riviste. Non basta che io sia. Devo essere come mi viene suggerito. E se non decido per la mise in voga, se mi rendo diversa, comunque la mia sarà una diversità “rispetto a…” e non sarà un segno distintivo di maggiore libertà, solo un romantico tentativo di ribellione, calcolato già a priori dagli statistici della regola. Sono esclusa. Il mio potere decisionale si muove in spazi talmente angusti da far girar la testa. Seppure io mi illuda di scegliere, sono sfumature. Il quadro da lontano, non ha una sola pennellata fuori posto. Sono in guerra. Ma non me ne accorgo. Non sono diversa da chi vive nei paesi asiatici, africani, europei in cui ora stesso si stia svolgendo un conflitto. Solo che alcuni di loro ancora combattono con le armi e conoscono il sapore del sangue e il suo odore. Qui le armi vengono ritirate indietro un poco di più ogni giorno e, al loro posto, ai guerriglieri viene offerto una tv schermo piatto o un massaggio shiatsu. Sono una minoranza. Ma una minoranza strana, senza coesione, idee comuni, compassione reciproca. Una minoranza in parte soddisfatta del recinto in cui è stata rinchiusa, occupata dipingere di rosa lo steccato e a mettere luci colorate sul filo elettrico che lo circonda. Questa minoranza dice “Questo non è un recinto”. L’altra parte è una minoranza confusa, triste, amareggiata. Solo alcuni finalmente liberi dalla consolazione della rassegnazione. Altri finalmente senza speranza e pronti ad una nuova azione. La tentazione di prenderli per mano, i miei compagni di prigionia, è grande. Eppure non riesco. Sento fratellanza, invece, solo con quanto non sia della mia razza. Gli occhi di un cane in cerca del suo osso, il canto fastidioso di un uccello che aspetta il giorno, il frignare di una cicala, il rumore del vento che racconta a se stesso di se stesso, il coraggio dell’erba che cresce senza permessi e senza promesse. Mi chiedo, come sia possibile che quanto rendeva umano l’uomo, comprese le sue debolezze, ora possa ritrovarlo solo altrove. E mi vengono in mente, a riprova del contrario, alcune sue meschine debolezze in cui ancora ne vedo il volto, nel suo dolore, talvolta, nella sua dignità, anche quando gli è stata imbeccata ma riesce a fiorire nel suo spesso terrificante sacrificio.

Non riesco però a permettermi di riconoscermi nella minoranza senza sforzarmi di credere in piccole, perfette fantasie che possano andare al di là delle piccole differenze di circostanza e unire in una nuova capacità di definizione. Non più maggiore o minore. Non solo uguale o diverso. Riconoscermi parte per finalmente definire altre categorie, prodomi di una nuova realtà. Ma so quanto meschino ed illusorio sia il mio sogno. Bellissimo da immaginare prima del sonno notturno, impossibile da tradurre di giorno. Dolce perché sogno, amaro per lo stesso motivo. E non mi resta che cercare di amare per non smettere di vedere la minoranza di cui pure sono parte, la minoranza che comunque non sono io. Io. Una. Sola. Persona. La coda è morsa, il cerchio si chiude. Resta la droga dell’utopia come cura alla disperazione, financo almeno che non ne comprenda i limiti, pur costitutivi e quindi da subito visibili. E ricomincia. Sono minoranza. Sono straniera, omosessuale, prigioniera, esclusa, senza terra, senza casa, in guerra, ferita, offesa. Che non sia meglio essere maggioranza piuttosto che crescersi questa consapevolezza di una umanità morente per un cancro psicosomatico?
Che posso ancora fare? Vivere, mi suggerisci. RicordarTi. Mi sussurri.
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Ipsi Dixerunt